La splendida cornice della città di Trento, il 20 e 21 gennaio ha ospitato un convegno internazionale di grande livello in tema di Giustizia Riparativa.
Un ritrovato Ivo Aertsen, un abbraccio all’amica trentina di adozione, buona cucina e una birra in compagnia: ingredienti perfetti per immergersi nella giusta dimensione della Giustizia dell’Incontro.

La società civile è pronta ad accogliere le pratiche di Giustizia Riparativa?

Dalla nota opera “Utopia” di Thomas More, pubblicata a Leuven, prende le mosse la graffiante sollecitazione del Prof. Aertsen (KU Leuven Institute Criminology).

Restorative Justice: a challenging pathway towards a new, trasform,ational response to crime that involves the community”. Sì, perchè la RJ ha a che fare con la vita delle persone (“lifeword”), con il contemperamento dei bisogni coinvolti (“balancing the need” di vittime, autori, comunità), incluso il loro bisogno di Giustizia.

E’ importante capire il suo significato “soggettivo”.

L’avvocato è chiamato a “semplificare” il problema per ricondurlo a categorie giuridiche: il mediatore è chiamato ad “aumentare” la complessità.

Nella RJ le Parti sono “soggetti morali”, capaci di partecipare e di incontrarsi: può non essere sempre possibile risolvere il problema, ma offrire aiuto sì.

Ma cosa è la RJ? Secondo il Prof. Aertsen, è un approccio, è una filosofia, è un paradigma.

Offre una opportunità di dialogo tra vittima e autore.

Il suo divenire è importante tanto quanto i suoi esiti.

Non si cura della natura del crimine e della sua gravità.

Si presta a tutte le fasi del processo.

Questi sono i suoi ideali!

 

I suoi approcci e le sue priorità sono molteplici:

educare/aiutare/riabilitare gli autori;

supportare le vittime;

ridurre il carico giudiziario;

contenere i costi;

potenziare le relazioni;

riformare il sistema penale;

…..

…..fare Giustizia?

Vediamo…..

In Europa, secondo una ricerca condotta da Dunkel nel 2015, pure presente al convegno, la Mediazione Vittima/Autore (VOM) è lo strumento di Giustizia Riparativa predominante (in 35 Paesi, contro i 13 del Conferencing). La normativa in tema di RJ è presente in quasi tutti i Paesi Europei ma assume un ruolo limitato nel contesto generale dei sistemi penali.

Eppure il Consiglio d’Europa, con la Raccomandazione (99)19 del Consiglio dei Ministri è chiaro nel definire la Mediazione come un servizio offerto a tutti, in ogni fase del processo e per ogni tipo di reato.

Questo sarebbe un buon argomento politico per il nostro Paese…

Ma perché coinvolgere la Comunità in tutto questo?

Perché il conflitto ha una dimensione pubblica che coinvolge importanti aspetti sociali, e infatti:

– nella prospettiva delle responsabilità dell’autore di reato, assume rilievo la violazione di una norma di convivenza sociale nonché la ri-socializzazione;

– nella esperienza delle vittime, ad essere persa è la fiducia verso la società.

Ciò che si configura non è solo un danno in astratto per la società, ma un tangibile pregiudizio per la comunità nel suo interno (in una sorta di “vicarious victimisation”).

Il Prof. Aertsen si sofferma sulle diverse declinazioni del concetto di “comunità”.

La comunità può essere:

  • una “Community of care” o “comunità di supporto” (che include i portatori di interessi diretti),
  • una “Local Community” o “comunità locale, territoriale” (che include i portatori di interessi indiretti),
  • una “Wider Community” (una comunità più ampia)
  • una molteplicità di gruppi e di reti (membri di gruppi Facebook, ad esempio),
  • una percezione di connessione, una attitudine alla solidarietà (“communitarianism”).

Ma se la comunità, nelle sue diverse espressioni, è coinvolta nel conflitto, come può entrare a fare parte delle pratiche di RJ?

Il suo coinvolgimento ed apporto può essere diretto (si pensi alle comunità di supporto, ai cittadini, ai volontari,…), o indiretto (strategie di comunicazione; politica).

Secondo un interessante schema di A. Crawford, nel quale sono messi a confronto i modelli della “Restorative Justice” e della “Community Justice”, l’esperienza del reato sviluppa approcci e stimoli diversi.

Nel primo modello l’esperienza del reato involge vittima e reo (cosa succede alla vittima e al reo?), nell’altro l’esperienza del reato è collettiva (Cosa succede alla comunità?); nell’uno, le strategie di reazione al crimine sono affrontate a livello individuale (partecipazione al processo), nell’altra le strategie sono più ampie ed includono programmi di prevenzione del crimine. Il primo modello funziona se i protagonisti sono soddisfatti (con riferimento al processo ed ai suoi esiti), il seconda funziona quando la qualità della vita in un dato luogo è migliorata.

Nel primo modello si ha a che fare con “Restoring Communities” (comunità riparate), nel secondo con “Transforming communities” (comunità trasformate).

Gli esiti di una ricerca inglese sulle commissioni che si occupano di reati giovanili (Fonseca, Rosenblatt, 2015) dimostrano che sebbene i membri delle commissioni ricoprano un ruolo centrale, essi non sono parte del processo, non esplorano né sviluppano alcuna delle tre dimensioni della comunità (quella geografica, relazionale e identitaria).

La ragione risiede nel fatto che da un lato i membri di dette commissioni non rappresentano tutta la comunità, provenendo principalmente dalla stessa classe sociale (classe media e membri già attivi della comunità) e dall’altro gli esiti scritti di dette commissioni sono preconfezionati in quanto redatti da professionisti.

In altri termini, dette commissioni riflettono una concezione passiva del coinvogimento della comunità.

Non ci sono metodiche in grado di coinvolgere attivamente tutta la comunità.

Perchè un “luogo neutro”, come quello offerto dalla RJ è così importante? (i colloqui preparatori con le parti che costruiscono confidenzialità e rispetto; l’incontro vittima/reo come spazio di tutela psicologica).

La RJ ha un carattere ibrido (“Inter – Legality”) ed ha una posizione intermedia: crea spazi di semi – autonomia e di interazione e rende possibile un confronto sano.

Ecco che allora la Restorative Justice è una “doing justice”, una giustizia del fare.

Un sistema può essere creato per un continuo chiarimento dal basso verso l’alto “dove la giustizia delle persone sgorga per rimodellare la giustizia della legge e dove la giustizia della legge ritorna al mondo dei cittadini” (Braithwaite and Parker)

Si tratta di una Giustizia Sociale? Si indirizza verso le ineguaglianze e le ingiustizie sociali.

In questo senso,

la Giustizia torna ad essere una “opportunity” per la comunità;

contribuisce ad un sistema di giustizia più democratica (inclusiva, responsiva)

torna alle radici della giustizia penale: ripristina la pace sociale sotto l’egida della legge.

 

…questa non è Utopia….è Ottimismo!

La Giustizia Riparativa nella esperienza degli operatori.

Le successive Sessioni di lavoro, dedicate agli aspetti operativi della RJ nell’ordinamento giuridico italiano, si sono aperte con un interessante focus sul Processo Penale Minorile.

Se il reo minorenne è la prima vittima del reato che egli stesso commette (“Delitto e Castigo”), il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Trento, Dott. Paolo Biasi, collocherebbe i giovani autori di reato nel girone dantesco degli Ignavi, il cui l’Io ipertrofico dimentica il Tu e il Voi, predominando su tutto.

La malvagità non esiste”, prosegue il magistrato – dotato di non comune sensibilità – “esiste il vuoto di pensiero”: esistono importanti “deprivazioni di Amore”, ma anche sottili forme di “violenza intellettuale”, con richieste crescenti di performance anche sul piano scolastico.

Ecco che allora questi giovani “vanno riportati alla calma, al silenzio”. Talvolta il reato diventa l’occasione per prendere in carico una problematica che non ha trovato accoglienza nel paradigma sociale.

Dante è sceso all’Inferno come soggetto consapevole e non come dannato, accompagnato da Virgilio”. Il messaggio è oltremodo chiaro: servono guide abili, capaci di far fronte con professionalaità e sensibilità ad incarichi tanto delicati.

 

Nella esperienza degli operatori del Centro di Giustizia Riparativa della regione Autonoma Trentino Alto Adige/Sudtirol, i temi nodali della RJ sono la Responsabilità, la Partecipazione, la Riparazione..

Compito del mediatore è quello di vigilare affinchè la Riparazione non abbia carattere afflittivo e risponda al principio della proporzionalità ed adeguatezza.

Valeria Tramonte, Mediatrice penale, non teme un certo grado di strumentalità nell’approccio delle parti alla mediazione; questo atteggiamento se da un lato non è in grado di per sé di pregiudicarne l’esito, dall’altro lato evidenzia comunque un certo livello di interesse per la relazione.

L’esito positivo della mediazione è oltremodo evidente nei reati procedibili a querela, allorchè intervenga la remissione. Diverso è il discorso relativo ai reati procedibili d’ufficio. In questi casi, l’esito dell’incontro tra reo e vittima non potendo incidere sulla procedibilità, può essere in grado di affievolire la pretesa punitiva (il pensiero va alla sentenza di irrilevanza del fatto).

La Tramonte evidenzia, del tutto condivisibilmente, come l’esito positivo della mediazione non debba essere valutato solo in termini processuali.

Infatti, quanto al reo, l’esperienza dell’incontro con la vittima può dischiudere processi di responsabilizzazione, che includono la presa di distanza da atteggiamenti di minimizzazione dei propri agiti e di spersonalizzazione dell’altro. Elementi questi che potrebbero peraltro essere utilmente valutati anche dall’Autorità Giudiziaria entro la cornice degli istituti giuridici più appropriati.

La vittima, d’altro canto, potrà cogliere una inedita opportunità di esplicitazione delle proprie esigenze e dei propri bisogni. La vittima dovrà essere sempre destinataria di un immediato supporto perchè non consolidi il convincimento di essere valorizzata solo in funzione del processo.

Nella sessione dedicata al procedimento penale degli imputati adulti, l’attenzione si è principalmente concrentrata sull’istituto della sospensione del processo con messa alla prova, per la idoneità dei progammi trattamentali ad includere pratiche riparative (sia pure con le dovute precisazioni).

Il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trento, dott.ssa Licia Scagliarini si è soffermata sul problema “cognitivo” del giudice del dibattimento, chiamato a valutare la bontà di istanze di sospensione del processo con messa alla prova a seguito di opposizione a decreto penale di condanna. Siffatta competenza, sottratta al GIP a seguito del recente intervento della Suprema Corte, suggerirebbe – ad avviso del PM – la necessità di implementare la collaborazione tra le parti processuali affinchè nel fascicolo del dibattimento siano inseriti tutti gli atti di indagine, utili ad una valutazione prodromica della situazione da parte del Tribunale.

L’istituto della Messa alla Prova, evidenzia il magistrato, è un istituto Responsabilizzante “a tappe” per l’imputato e non un premio (a differenza dell’istituto della sospensione condizionale della pena), che chiama ciascuno dei protagonisti della scena processuale ad un esercizio responsivo delle proprie funzioni.

Da un lato, l’organo d’accusa che intenda ostacolare l’accesso dell’imputato a siffatto istituto deve attenersi all’unico vincolo normativo, rappresentato dalla “Dichiarazione di Delinquenza Abituale, Professionale e per Tendenza”. In assenza di siffatta dichiarazione, pressochè irrilevante nella prassi giudiziaria, il giudizio discrezionale della Procura in merito all’istanza della Difesa deve basarsi su tutti gli elementi conoscitivi a disposizione per poi….”lanciare il cuore oltre l’ostacolo”…

Dall’altro lato, l’organo giudicante non deve perdere di vista la natura risocializzante e responsabilizzante dell’istituto, e non la mera natura deflattiva: si tratta di una occasione unica per il richiedente che non implica alcuna regalia o concessione da parte dell’A.G.

All’interno della Sessione di lavoro, la dott.ssa Daniela Arieti, mediatrice penale presso il Centro di Giustizia Riparativa della Regione Autonoma Trentino Alto Adige/Sudtirol, ha evidenziato come gli esiti positivi dei procedimenti penali a carico di adulti di competenza del Giudice di pace siano infrequenti, essenzialmente per resistenze culturali ancora molto forti delle persone di fronte a strumenti che richiedano un “impegno fattivo”.

Ciononostante, pur in assenza di un immediato riscontro processuale positivo, gli operatori del Centro valorizzano le preziose opportunità di “cura delle relazioni”, nella prospettiva della accoglienza di un “bisogno” e non di un “risultato”. Il dialogo assolve ad una funzione essenzialmente preventiva e allora, ”anche parlare del taglio di un albero può essere utile”…

Quanto, poi, ai lavori di Pubblica Utilità, la Arieti, sottolinea il valore “rieducativo” ma non necessariamente “riparativo”.

L’ultima sessione, presieduta dalla Professoressa Antonia Menghini, docente di Diritto Penitenziario, porta alla memoria, con il carisma che contraddistinue il Dott. Giovanni Maria Pavarin, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Trento, l’annullamento della partecipazione dell’ex brigatista Adriana Faranda nell’ambito di un corso di formazione per magistrati.

Dove è lo scandalo?”, diceva Valerio Onida (ex giudice della Corte Costituzionale ed ex presidente della scuola). “O si pensa che la scuola sia un sancta sanctorum, un tabernacolo che non può essere profanato dalla presenza di certe persone? La formazione è per eccellenza il luogo della riflessione e del confronto e la formazione dei magistrati non può ignorare quello della giustzia riparativa”.

Compito degli operatori, ribadisce Pavarin, è offrire al reo una apertura sulla vittima: “al reo è stato insegnato a riparare in favore dello Stato, e non della vittima”.

La riparazione del danno è un “concetto etico profondo”. Nel procedimento penale minorile non è consentita la costituzione di parte civile e con essa il risarcimento, proprio perchè il risarcimento è cosa diversa dalla riparazione.

L’esperienza professionale del magistrato testimonia che la Vittima che riceva la lettera del suo offensore tragga piacere da quel tempo dedicatole, a prescindere dal fatto che sia intervenuto o meno un pentimento.

Il reato è un male che non si cancella”, che rischia di soggiogare ancora più a sé la vittima, come straordinariamente osservato da Luciano Eusebi in un articolo pubblicato nel 2016 in “Orientamenti Pastorali”.

Ho apprezzato particolarmente le riflessioni del collega Filippo Fedrizzi del Foro di Trento, che rileva come paradossalmente in fase esecutiva gli spazi per la RJ siano estremamente marginali, benchè in questa fase il problema della presunzione di non colpevolezza non si ponga più.

L’avvocato Fedrizzi, in esito ad una panoramica raccolta di riflessioni rese da operatori giudiziari del Tribunale di Trento, ha rilevato alcune motivazioni:

in sede cognitiva:

  • la disarmonia tra i tempi della RJ ed i tempi processuali;
  • l’atteggiamento di diffidenza verso i mediatori;

in sede esecutiva:

  • impedimenti burocratici;
  • mancanza di fondi / spending review;
  • mancanza di personale;
  • differenze culturali che richiedono mediazioni specifiche;
  • brevità delle pene nella casa circondariale di Trento.

L’abitudine a misurare il benessere in termini economici, propria di una generazione cresciuta nello snodo di due ideologie (quella marxista e quella liberalista) costituisce un humus culturale restio a considerare la vittima in termini diversi da quelli puramente economici.

Al prossimo convegno….!