Giustizia Riparativa

9 Novembre 2018
Tribunale di Velletri

Verso una giustizia di comunità

Lo scorso 9 novembre 2018, il Tribunale di Velletri ha aperto le sue porte ad un pomeriggio di studio e riflessione sulla Giustizia Riparativa al quale ho partecipato con estrema gioia, coniugando ormai irrinunciabilmente il mio essere avvocata e mediatrice penale.

Un luogo funzionalmente dedicato al Giudicare, un Palazzo di Giustizia, si è fatto contenitore per qualche ora di uno spazio di pensiero che ha il sapore di una rivoluzione dolce, non violenta, nella risposta al reato.

Potete rivedere gli interventi del convegno a questi link: prima parteseconda parte

 

Il 16 maggio 2018
presso Sala Conferenze di Palazzo Reale
Piazza del Duomo, 12 – Milano

Una giornata di approfondimento e di riflessione con studiosi ed esperti internazionali nel campo della giustizia minorile, della giustizia riparativa, dell’educazione e della pedagogia.

Scarica il programma del convegno.

 

Ecco l’articolo scritto a quattro mani con la Dott.ssa Anna Lorenzetti, pubblicato sulla rivista giuridica online “Giudice Donna”

“L’articolo che proponiamo è il frutto della riflessione condivisa con Anna Lorenzetti intorno alla percorribilità di ipotesi di giustizia riparativa nel contesto dei reati legati alla violenza di genere a partire da una prospettiva teorica e dalla dimensione pratico-applicativa, nel tentativo di rinvenire una via di dialogo”.

Ecco l’articolo completo!

 

Lo Studio Ribon, in collaborazione con l’Istituto Scolastico Caterina Cittadini delle Suore Orsoline di Somasca in Bergamo, ha promosso e organizzato il corso per genitori “Giustizia e Misericordia”.

Il corso è organizzato in tre moduli:

I MODULO: La Giustizia della Relazione
23 gennaio 2018 ore 21

“Egli si aspettava giustizia
ed ecco spargimento di sangue
[…] e grida di oppressi”
(Is 5,7)

La caratteristica profonda della giustizia nella prospettiva biblica è di essere una giustizia essenzialmente relazionale. Giustizia è giuste relazioni: tra fratelli, con il creato, con Dio stesso. Non è dunque una giustizia già data ma continuamente da costruire (e riscostruire). Una giustizia affidata al cammino responsabile dell’uomo e della donna e alla loro capacità di farsi carico dell’altro, di far posto all’altro nella propria vita e nella propria storia, di ripartire dopo le ferite

Relatore: Padre Guido Bertagna

 

II MODULO: La Giustizia a partire dai volti
30.01.2018 ore 21

La Giustizia Riparativa è una via capace d incontrare e accogliere il conflitto, allo stesso tempo antichissima e nuova: le sue fonti sono infatti la saggezza delle società cosiddette ‘tradizionali’ e insieme la tendenza estremamente attuale verso l’implementazione e il rispetto dei diritti umani. Essa non ha a che fare solo con particolari ‘tecniche’ o abilità (come accade con le forme negoziali o di Alternative Dispute Risolution), ma soprattutto con l’accoglienza piena di ogni persona umana e con il riconoscimento della sua sofferenza e del suo desiderio di trasformazione, di pienezza e di pace. Questa attitudine non riguarda soltanto I mediatori ‘professionisti’ o gli operatori della giustizia: imparare ad assumerla può essere un aiuto prezioso per ciascuno nella relazione con gli altri e con se stesso.

Relatore: Leonardo Lenzi

 

III MODULO: Un cammino di riparazione: un incontro di 7 anni fra vittime e responsabili della lotta armata
06.02.2018 ore 21

Negli ultimi anni, lontano dai riflettori mediatici della scena pubblica, vittime e responsabili della lotta armata degli anni settanta hanno cercato, insieme, di ricomporre la ferita lasciata aperta da quegli anni sofferti.

Testimonianze: Franco Bonisoli, Giorgio Bazzega, Anna Cattaneo

 

 

In allegato la brochure dell’evento.

 

Sono aperte le iscrizioni alla 10^ Conferenza Internazionale dello European Forum for Restorative Justice che si svolgerà dal 14 al 16 giugno 2018 a Tirana.

Occasione davvero preziosa di approfondimento sulla Giustizia Riparativa.
Una sfida concreta per gli attuali sviluppi penali, in grado di offrire alternative agli ancora attuali approcci repressivi ed esclusivi utilizzati nell’affrontare le complesse dinamiche sociali. Questa visione si manifesta nel desiderio di riformare i sistemi sia penali che sociali nelle loro strutture interne, in favore di pratiche più adeguate agli ideali e ai principi delle moderne democrazie e ai diritti umani.

Maggiori informazioni sul programma della conferenza sul sito ufficiale.

Il prossimo 29 settembre si terrà a Firenze il convegno “La centralità della mediazione penale per la messa alla prova degli adulti” che descriverà l’esperienza realizzata con il progetto “PER DIRE STOP: Percorsi di responsabilità nuove Strade Oltre la Pena”, finanziato con fondi C.E.I. 8xmille e promosso dalla nostra Caritas Diocesana di Firenze in collaborazione con l’Ufficio Interdistrettuale Esecuzione Penale Esterna di Firenze, l’associazione “L’Altro Diritto” e il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, Università degli Studi di Firenze. Il convegno vedrà la partecipazione dei protagonisti del progetto e di esperti in materia di giustizia riparativa, con particolare riguardo alla prospettiva della mediazione penale. Ritenendo che l’argomento possa incontrare il Suo interesse, ci è gradito invitarLa alla giornata e Le alleghiamo, quindi, il programma del convegno, che si terrà presso l’Aula Conferenze (edificio D6 aula 018) del Polo di Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Firenze in Via delle Pandette 32.

Scarica qui il programma dettagliato.

 

Fondamenti ed itinerari della restorative justice, dal 3 all’ 8 luglio 2017,  una summer school promossa dall’Università degli Studi di Bergamo e dall’Ufficio Giustizia riparativa della Caritas di Bergamo.

La Summer School intende offrire l’occasione di conoscere e discutere i fondamenti filosofici, giuridici e culturali della giustizia riparativa (restorative justice), e le principali metodologie delle pratiche riparative (restorative practice).

Si propone a ricercatori, dottorandi, laureati di laurea triennale, studenti dei corsi di laurea magistrale, operatori dell’area penale e della giustizia minorile, assistenti sociali (è stato richiesto il riconoscimento dei crediti FC.AS) ed educatori di comunità, avvocati (in corso di accreditamento).

Si incontreranno sperimentazioni in atto nel campo della mediazione della costruzione di comunità riparativa, della giustizia di transizione.

Scarica qui il programma dell’evento

Resoconto del I modulo del Corso di Formazione “La Giustizia Riparativa e le Vittime di Reato” per mediatori penali svoltosi sabato 18 marzo 2017 presso la sede Caritas Bergamo.


La vittima del reato, “da ospite inatteso a catalizzatore 
del processo penale
Nell’ambito del Corso di Formazione per Mediatori Penali, promosso per l’anno 2017 dagli Uffici di Giustizia Riparativa e di Mediazione di Bergamo e Mapello, la Vittima di reato è al centro di un interessante approfondimento, articolato su quattro moduli formativi, rispettivamente dedicati a: “Tutela delle Vittime: aspetti giuridici. Direttiva 2012/29/UE e Decreto Legislativo 212/2015 (Roberta Ribon), “Servizi di Giustizia Riparativa nella Direttiva Vittime” (Adolfo Ceretti), “Le violenze di genere. C’è possibilità per la mediazione?” (Anna Lorenzetti), “La cura delle vittime nella comunità riparativa” (Ivo Lizzola).

Di seguito, un estratto dell’intervento formativo del 18 marzo u.s., richiestomi in merito alla tutela delle vittime sotto il profilo giuridico, sia a livello sovranazionale che nazionale.

Ebbene, la disamina degli attuali aspetti di tutela giuridica delle vittime di reato non può non prendere le mosse da una ricognizione del ruolo della vittima nel processo penale, storicamente connotata da una progressiva emarginazione, che l’ha confinata al ruolo di mera persona offesa, portatrice tutt’al più di interessi civilistici passibili di ristoro economico in caso di condanna dell’autore di reato.

La “grande dimenticata” del processo penale, come è stata chiamata la vittima da diversi autori italiani e stranieri, è stata nel tempo disarmata e neutralizzata nei suoi fisiologici sentimenti di vendetta, per rendere possibile il perseguimento della pace tra i consociati attraverso la previsione di una pena ristabilizzatrice dell’ordine sociale sovvertito dal reato.

In questo processo di graduale confino della vittima, cui ha fatto da contraltare la speculare sottrazione del reo dall’arbitrio punitivo, si è consolidata la dialettica tra lo Stato, da una parte, e l’autore del reato, dall’altra, una dialettica processuale totalmente reocentrica.

Ma, se la sottrazione del reo dalla vendetta privata e la sottoposizione dello stesso alla pena finalizzata alla rieducazione rappresentano uno strepitoso progresso di civiltà giuridica, la  sensibilità moderna non può non evidenziare i limiti dell’attuale sistema penale, ad oggi non più rispettoso della dignità della vittima. Troppo spesso la vittima del reato non è adeguatamente protetta, se non addirittura vittimizzata, da quello stesso processo che se ne serve per accertare il reato, salvo poi – talvolta a distanza di anni – tentare di “riabilitarla” in termini di monetizzazione della sofferenza, nei limiti della rara capienza dell’offensore.

Una vittima così vessata e violata non può che esprimere istanze giustizialiste cariche di rancore: processi sommari e pene esemplari.

Queste istanze, nelle quali spesso la collettività si identifica e che, proprio per tale ragione, orientano le politiche penali/criminali, rischiano di minare quel grandioso traguardo di civiltà che è rappresentato appunto dal necessitato ritorno della vittima nel processo penale.

L’Europa per prima ha avvertito i rischi connessi ad una protratta emarginazione delle vittime dalla scena processuale ed ha indicato un chiaro cambiamento di rotta, occupandosi della loro dignità umana, rafforzandone i diritti, il sostegno e la tutela, in particolare nei procedimenti penali.

Se oggi la vittima del reato riscopre la centralità della sua posizione durante tutto l’arco procedimentale è grazie alle istanze europeiste, sintomatiche di una mutata sensibilità per il portato di sofferenza della stessa.

Nonostante le generali ritrosie ad una infiltrazione delle istanze della vittima nel processo penale – ritrosie basate essenzialmente sul timore di un recupero di pulsioni giustizialiste all’interno del processo penale nonchè di una privatizzazione dello stesso – sta ormai maturando la consapevolezza che un processo che si voglia definire giusto non solo debba tutelare gli interessi della collettività e del reo, ma anche garantire il rispetto della persona offesa e la tutela delle sue aspettative in ordine al reato, facendone un vero e proprio attore del processo penale.

La Direttiva 2012/29/UE rappresenta uno degli interventi più significativi dell’Unione Europea in questo settore. Essa costituisce un vero e proprio Statuto dei diritti delle vittime, un corpus juris di considerazioni e diritti fondamentali in materia di persone offese dal reato.

Questo corpo normativo, da un lato, costituisce una riaffermazione di nozioni già contenute nella precedente Decisione Quadro 2001/220/GAI che viene a sostituire, dall’altro, introduce elementi di novità, nell’ottica di armonizzare la disciplina degli Stati membri dell’Unione in materia di tutela delle vittime di reato durante tutto il procedimento penale ed oltre.

La direttiva 2012/29/UE giunge al termine di un percorso normativo europeo scandito in vari “step”, che ha preso l’avvio con il c.d. Programma di Stoccolma (che ha delineato le priorità dell’Unione europea in tema di libertà, sicurezza e giustizia per il periodo 2010 -2014) e che ha conosciuto un vero e proprio piano di azione con l’adozione della c.d. «tabella di marcia di Budapest».

Questo lungo percorso di ampliamento dei diritti e delle facoltà delle vittime è stato costellato dall’adozione di numerosi e significativi interventi normativi mirati a tutelare le vittime di determinate tipologie di delitti, fra cui la Convenzione di Istanbul, la Convenzione di Lanzarote, la Direttiva 2004/80/CE sull’indennizzo delle vittime di reato, la Direttiva 2011/36/UE sulla tratta degli esseri umani, la Direttiva 2011/92/UE sull’abuso, lo sfruttamento e la pornografia minorile, la Direttiva 2011/99/UE sull’ordine di protezione europeo, sino alla già menzionata Decisione Quadro 2001/220/GAI sulle vittime nel procedimento penale.

Tutti questi interventi confermano come la progressiva ammissione della vittima nella dinamica processuale e, più in generale, la mutata attenzione verso la posizione di quest’ultima in ambito penale costituiscano una priorità assoluta dell’Unione.

In particolare, l’Unione europea, con la direttiva in esame, è intervenuta al fine di stabilire norme minime in materia di diritti, protezione e assistenza alla vittima di reato, reputando che tale obiettivo non potesse essere raggiunto in maniera sufficiente dagli Stati membri (cfr. considerando 67), bensì a livello dell’Unione.

Le norme minime, in definitiva, definiscono non più solo cosa l’Europa propone, ma cosa l’Unione Europea oggi ritiene indefettibile a proposito della tutela della vittima e della riparazione verso la vittima nel contesto penale, muovendo da un generale ripensamento del reato, visto non più solo come torto inferto alla società, ma anche come violazione dei diritti individuali delle vittime (cfr. considerando 9) che, come tali, dovrebbero essere “riconosciute e trattate in maniera rispettosa, sensibile e professionale, senza discriminazioni di sorta”.

Parola chiave della Direttiva 2012/29/UE è certamente la parola vittima, una parola che divide in ambito penale, perchè evocativa di connotazioni emotive, terreno quantomai scivoloso nel mondo giuridico (non a caso il legislatore penale italiano ha scelto di continuare a privilegiare l’espressione “persona offesa”).

Nel contesto della direttiva 2012, vittima è “una persona fisica che ha subito un danno, anche fisico, mentale o emotivo, o perdite economiche che sono state causate direttamente da un reato”. Innovando rispetto alla precedente decisione quadro, essa giunge a ricomprendervi anche la c.d. vittima indiretta, ovvero il “familiare di una persona la cui morte è stata causata direttamente da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona”, laddove per familiare si intende, oltre al coniuge, anche il convivente more uxorio, i parenti in linea diretta, i fratelli e le sorelle e le persone a carico della vittima.

La direttiva, dunque, riconosce la famiglia di fatto (cfr. art. 2) mentre esclude la persona giuridica dal proprio ambito di applicazione.

Il legislatore europeo, infatti, ha introdotto un sistema di tutela a favore delle sole persone fisiche data la loro maggiore vulnerabilità e la natura degli interessi in gioco, la vita e l’integrità fisica, che le rendono oggettivamente diverse dalle persone giuridiche.

Il testo della normativa europea è diviso in due parti: una prima parte enuncia i principi posti a presidio della tutela della vittima, in materia di assistenza, protezione, diritto di partecipare al processo e giustizia riparativa; ad essa si accompagna la volontà di ottenerne un’attuazione effettiva da parte degli Stati che non ammette eccezioni.

Una seconda parte declina siffatti principi in diritti, accompagnandosi alla richiesta rivolta agli Stati Membri di darvi attuazione interna impiegando criteri puntuali.

Così, ad esempio, il generale diritto della vittima di accedere alla giustizia dovrà essere reso effettivo mediante la determinazione a livello di legislazione nazionale di precisi criteri di partecipazione al procedimento penale.

Il Capo I della Direttiva rende esplicito l’obiettivo per il quale gli Stati Membri debbano assicurare che le vittime siano riconosciute e trattate in maniera rispettosa, sensiibile, personalizzata, professionale e non discriminatoria in tutti i contatti con i servizi di assistenza alle vittime o di giustizia riparativa o con l’autorità competente operante nell’ambito di un procedimento penale.

Il Capo II sancisce anzitutto il diritto della vittima a ricevere informazioni.

Il Capo III è dedicato ai diritti di partecipazione della vittima al procedimento penale nonché al diritto di accesso, a precise condizioni, ai servizi di giustizia riparativa.

Con riferimento alla Giustizia Riparativa, in particolare, la Direttiva Vittime offre una definizione più ampia di quella accolta dalla precedente Decisione Quadro, identificandola in “qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, previo consenso libero ed informato, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale”.

La direttiva chiede agli Stati Membri di creare le condizioni perché le vittime possano giovarsi di servizi di giustizia riparativa (tra i quali comprende la mediazione, il dialogo esteso ai gruppi parentali e i consigli commisurativi), apprestando garanzie volte ad evitare la vittimizzazione secondaria e ripetuta e l’intimidazione.

Dalla lettura della direttiva si evince che a tali forme alternative si dovrebbe ricorrere soltanto nell’interesse della vittima, oltre che col suo consenso libero, informato e sempre revocabile. L’obiettivo dichiarato è, infatti, la salvaguardia degli interessi e delle esigenze della vittima, la riparazione del pregiudizio da essa subito e la prevenzione di ulteriori danni.

Per questa ragione, la direttiva richiede come condizione per il ricorso ai servizi di giustizia ripartiva che l’autore del reato riconosca prima i “fatti essenziali del caso”.

Gli Stati dovranno stabilire le condizioni di accesso a tali servizi tenendo conto della natura e della gravità del reato, del livello del trauma causato, degli squilibri nella relazione tra vittima e autore, e della maturità e capacità intellettiva della vittima, e fornire alla vittima un’informazione completa sul procedimento alternativo e sulle sue conseguenze.

E ancora. Il Capo IV presidia la protezione delle vittime ed il riconoscimento di quelle che rivelano specifiche esigenze di protezione.

Per alcune vittime, infatti, potrebbero venire in rilievo specifiche esigenze di tutela; per tale ragione è necessario che siano sottoposte ad una valutazione individuale per determinare se ed in quale misura trarrebbero beneficio da misure speciali nel corso del procedimento. Alcune categorie di vittime che si presume necessitino di particolare attenzione vengono precisamente individuate: si tratta dei minori, dei disabili, delle vittime del terrorismo, delle vittime di violenza di genere e di violenza nelle relazioni strette.

Il concetto di vulnerabilità ha un’importanza centrale; ad esso è dedicata particolare attenzione, soprattutto con riferimento all’esigenza di una valutazione individuale definita come “necessaria per individuare le specifiche esigenze di protezione e determinare se in quale misura trarrebbero beneficio da misure speciali nel corso del procedimento penale essendo particolarmente esposte al rischio di vittimizzazione secondaria”.

La volontà dunque della direttiva, in linea con la sua natura di statuto dei diritti delle vittime, è stata proprio quella di offrire una tutela quanto più estesa alle persone offese dal reato, cosicché la valutazione della vulnerabilità di una vittima deve essere fatta caso per caso basandosi sulle esigenze di ciascuna singola persona.

Il Capo V, da ultimo, è dedicato alla necessità di una formazione generale e specialistica per chiunque entri in contatto con la vittima; agenti di polizia, magistratura, avvocati, personale giudiziario, operatori dei servizi di assistenza vittime e di giustizia riparativa.

Nel nostro Paese, sino a prima del decreto legislativo 212/2015, finalizzato alla attuazione della Direttiva 2012/29, è stato lo strumento dell’interpretazione conforme alle indicazioni convenzionali a permettere al diritto interno di supplire alle esigenze di tutela degli interessi delle vittime di reato.

Con il Decreto 212/2015, invece, il legislatore delegato è stato chiamato a trasporre una disciplina di carattere più generale; tuttavia, detto intervento si è focalizzato solo su alcuni aspetti indicati dalla direttiva, e non su altri, con ciò mancando la preziosa occasione di realizzare una riforma organica e strutturata in tema di tutela della vittima di reato.

Innanzitutto, quanto al concetto di vulnerabilità, il legislatore delegato ha optato per identificare immediatamente dei criteri da cui è possibile desumersi lo status di vulnerabilità, senza procedere ad introdurre la norma con una definizione più aperta e indefinita e solo in un secondo momento prendendo in considerazioni certi criteri e certi tipi di reato.

Nulla è poi detto circa gli strumenti in materia di giustizia riparativa: il d.lgs, infatti, non vi accenna neppure ed anzi, appare evidente l’esistenza di una certa diffidenza di fondo del sistema penale italiano che, quando è ricorso a misure riparative, lo ha fatto unicamente per ragioni deflattive; per poter aprirsi alla via della giustizia riparativa il modello italiano dovrebbe ripensare il ruolo della vittima del reato.

Del resto, persino la persistente errata traduzione dalla lingua inglese ufficiale a quella italiana dell’art.48 della Convenzione di Istanbul è fonte di enormi equivoci tra gli stessi addetti ai lavori.

Benché, infatti, il citato art.48, intitolato “Prohibition of mandatory alternative dispute resolution processes or sentencing”, prevede che “Parties shall take the necessary legislative or other measures to prohibit mandatory alternative dispute resolution processes, including mediation and conciliation, in relation to all forms of violence covered by the scope of this Convention”, nella versione ‘ufficiale’ (ma non vincolante) in lingua italiana della Convenzione, l’art. 48 recita testualmente: “Divieto di metodi alternativi di risoluzione dei conflitti o di misure alternative alle pene obbligatorie”. E precisamente, “Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo destinate a vietare i metodi alternativi di risoluzione dei conflitti, tra cui la mediazione e la conciliazione, per tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione”.

La norma, così formulata, è davvero irragionevole e si pone in contraddizione con altri strumenti internazionali che invece raccomandano l’adozione della giustizia riparativa.

Se, dunque, si attendeva un mutamento di scenario nel diritto italiano ad opera del decreto di attuazione della direttiva 2012/29/UE si rischia di rimanere delusi: il processo penale italiano continua a negare una strada alternativa e/o complementare a quella tradizionale, senza interrogarsi sulla possibilità che, in determinati casi e nel rispetto di precisi presidi di tutela, il ricorso a forme alternative di risoluzione dei conflitti possa soddisfare  le esigenze di cui sono portatrici le vittime più di quanto il processo stesso possa fare.

Il problema attiene ad un entroterra culturale non favorevole alle istanze della vittima su cui tali diritti andranno a costruirsi: sebbene tali nuovi diritti siano effettivamente sintomo di una rinnovata sensibilità giuridica del legislatore italiano, essi rischiano di essere trascurati a causa di un’incapacità del sistema di sostenere tutte le implicazioni pratiche (anche di tipo economico) che ne conseguono.

Ciononostante, i fermenti di un pensiero nuovo si sono raccolti in occasione degli Stati Generali della Esecuzione Penale. Su mandato del Ministro della Giustizia, precisamente, duecento esperti del sistema sanzionatorio, del carcere e delle misure alternative alla detenzione si sono confrontati e hanno lavorato, raggruppati in 18 tavoli di lavoro su altrettante aree tematiche relative alla esecuzione della pena.

Il Tavolo 13, dedicato a “Giustizia Riparativa, Mediazione e Tutela delle vittime di reato”, si è occupato di allineare le esperienze di Restorative Justice sviluppate in Italia a quelle di altri Paesi europei ed extraeuropei, tenendo quale punto di orientamento i principi e le disposizioni contenuti proprio nella Direttiva 2012/29/UE, e ciò al fine di proporre modelli orientati alla vittima / collettività, promuovere percorsi di formazione ed una cultura riparativa nei contesti scolastici ed universitari.

Si tratta di un patrimonio prezioso, un tracciato entro cui continuare a lavorare…

La splendida cornice della città di Trento, il 20 e 21 gennaio ha ospitato un convegno internazionale di grande livello in tema di Giustizia Riparativa.
Un ritrovato Ivo Aertsen, un abbraccio all’amica trentina di adozione, buona cucina e una birra in compagnia: ingredienti perfetti per immergersi nella giusta dimensione della Giustizia dell’Incontro.

La società civile è pronta ad accogliere le pratiche di Giustizia Riparativa?

Dalla nota opera “Utopia” di Thomas More, pubblicata a Leuven, prende le mosse la graffiante sollecitazione del Prof. Aertsen (KU Leuven Institute Criminology).

Restorative Justice: a challenging pathway towards a new, trasform,ational response to crime that involves the community”. Sì, perchè la RJ ha a che fare con la vita delle persone (“lifeword”), con il contemperamento dei bisogni coinvolti (“balancing the need” di vittime, autori, comunità), incluso il loro bisogno di Giustizia.

E’ importante capire il suo significato “soggettivo”.

L’avvocato è chiamato a “semplificare” il problema per ricondurlo a categorie giuridiche: il mediatore è chiamato ad “aumentare” la complessità.

Nella RJ le Parti sono “soggetti morali”, capaci di partecipare e di incontrarsi: può non essere sempre possibile risolvere il problema, ma offrire aiuto sì.

Ma cosa è la RJ? Secondo il Prof. Aertsen, è un approccio, è una filosofia, è un paradigma.

Offre una opportunità di dialogo tra vittima e autore.

Il suo divenire è importante tanto quanto i suoi esiti.

Non si cura della natura del crimine e della sua gravità.

Si presta a tutte le fasi del processo.

Questi sono i suoi ideali!

 

I suoi approcci e le sue priorità sono molteplici:

educare/aiutare/riabilitare gli autori;

supportare le vittime;

ridurre il carico giudiziario;

contenere i costi;

potenziare le relazioni;

riformare il sistema penale;

…..

…..fare Giustizia?

Vediamo…..

In Europa, secondo una ricerca condotta da Dunkel nel 2015, pure presente al convegno, la Mediazione Vittima/Autore (VOM) è lo strumento di Giustizia Riparativa predominante (in 35 Paesi, contro i 13 del Conferencing). La normativa in tema di RJ è presente in quasi tutti i Paesi Europei ma assume un ruolo limitato nel contesto generale dei sistemi penali.

Eppure il Consiglio d’Europa, con la Raccomandazione (99)19 del Consiglio dei Ministri è chiaro nel definire la Mediazione come un servizio offerto a tutti, in ogni fase del processo e per ogni tipo di reato.

Questo sarebbe un buon argomento politico per il nostro Paese…

Ma perché coinvolgere la Comunità in tutto questo?

Perché il conflitto ha una dimensione pubblica che coinvolge importanti aspetti sociali, e infatti:

– nella prospettiva delle responsabilità dell’autore di reato, assume rilievo la violazione di una norma di convivenza sociale nonché la ri-socializzazione;

– nella esperienza delle vittime, ad essere persa è la fiducia verso la società.

Ciò che si configura non è solo un danno in astratto per la società, ma un tangibile pregiudizio per la comunità nel suo interno (in una sorta di “vicarious victimisation”).

Il Prof. Aertsen si sofferma sulle diverse declinazioni del concetto di “comunità”.

La comunità può essere:

  • una “Community of care” o “comunità di supporto” (che include i portatori di interessi diretti),
  • una “Local Community” o “comunità locale, territoriale” (che include i portatori di interessi indiretti),
  • una “Wider Community” (una comunità più ampia)
  • una molteplicità di gruppi e di reti (membri di gruppi Facebook, ad esempio),
  • una percezione di connessione, una attitudine alla solidarietà (“communitarianism”).

Ma se la comunità, nelle sue diverse espressioni, è coinvolta nel conflitto, come può entrare a fare parte delle pratiche di RJ?

Il suo coinvolgimento ed apporto può essere diretto (si pensi alle comunità di supporto, ai cittadini, ai volontari,…), o indiretto (strategie di comunicazione; politica).

Secondo un interessante schema di A. Crawford, nel quale sono messi a confronto i modelli della “Restorative Justice” e della “Community Justice”, l’esperienza del reato sviluppa approcci e stimoli diversi.

Nel primo modello l’esperienza del reato involge vittima e reo (cosa succede alla vittima e al reo?), nell’altro l’esperienza del reato è collettiva (Cosa succede alla comunità?); nell’uno, le strategie di reazione al crimine sono affrontate a livello individuale (partecipazione al processo), nell’altra le strategie sono più ampie ed includono programmi di prevenzione del crimine. Il primo modello funziona se i protagonisti sono soddisfatti (con riferimento al processo ed ai suoi esiti), il seconda funziona quando la qualità della vita in un dato luogo è migliorata.

Nel primo modello si ha a che fare con “Restoring Communities” (comunità riparate), nel secondo con “Transforming communities” (comunità trasformate).

Gli esiti di una ricerca inglese sulle commissioni che si occupano di reati giovanili (Fonseca, Rosenblatt, 2015) dimostrano che sebbene i membri delle commissioni ricoprano un ruolo centrale, essi non sono parte del processo, non esplorano né sviluppano alcuna delle tre dimensioni della comunità (quella geografica, relazionale e identitaria).

La ragione risiede nel fatto che da un lato i membri di dette commissioni non rappresentano tutta la comunità, provenendo principalmente dalla stessa classe sociale (classe media e membri già attivi della comunità) e dall’altro gli esiti scritti di dette commissioni sono preconfezionati in quanto redatti da professionisti.

In altri termini, dette commissioni riflettono una concezione passiva del coinvogimento della comunità.

Non ci sono metodiche in grado di coinvolgere attivamente tutta la comunità.

Perchè un “luogo neutro”, come quello offerto dalla RJ è così importante? (i colloqui preparatori con le parti che costruiscono confidenzialità e rispetto; l’incontro vittima/reo come spazio di tutela psicologica).

La RJ ha un carattere ibrido (“Inter – Legality”) ed ha una posizione intermedia: crea spazi di semi – autonomia e di interazione e rende possibile un confronto sano.

Ecco che allora la Restorative Justice è una “doing justice”, una giustizia del fare.

Un sistema può essere creato per un continuo chiarimento dal basso verso l’alto “dove la giustizia delle persone sgorga per rimodellare la giustizia della legge e dove la giustizia della legge ritorna al mondo dei cittadini” (Braithwaite and Parker)

Si tratta di una Giustizia Sociale? Si indirizza verso le ineguaglianze e le ingiustizie sociali.

In questo senso,

la Giustizia torna ad essere una “opportunity” per la comunità;

contribuisce ad un sistema di giustizia più democratica (inclusiva, responsiva)

torna alle radici della giustizia penale: ripristina la pace sociale sotto l’egida della legge.

 

…questa non è Utopia….è Ottimismo!

La Giustizia Riparativa nella esperienza degli operatori.

Le successive Sessioni di lavoro, dedicate agli aspetti operativi della RJ nell’ordinamento giuridico italiano, si sono aperte con un interessante focus sul Processo Penale Minorile.

Se il reo minorenne è la prima vittima del reato che egli stesso commette (“Delitto e Castigo”), il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Trento, Dott. Paolo Biasi, collocherebbe i giovani autori di reato nel girone dantesco degli Ignavi, il cui l’Io ipertrofico dimentica il Tu e il Voi, predominando su tutto.

La malvagità non esiste”, prosegue il magistrato – dotato di non comune sensibilità – “esiste il vuoto di pensiero”: esistono importanti “deprivazioni di Amore”, ma anche sottili forme di “violenza intellettuale”, con richieste crescenti di performance anche sul piano scolastico.

Ecco che allora questi giovani “vanno riportati alla calma, al silenzio”. Talvolta il reato diventa l’occasione per prendere in carico una problematica che non ha trovato accoglienza nel paradigma sociale.

Dante è sceso all’Inferno come soggetto consapevole e non come dannato, accompagnato da Virgilio”. Il messaggio è oltremodo chiaro: servono guide abili, capaci di far fronte con professionalaità e sensibilità ad incarichi tanto delicati.

 

Nella esperienza degli operatori del Centro di Giustizia Riparativa della regione Autonoma Trentino Alto Adige/Sudtirol, i temi nodali della RJ sono la Responsabilità, la Partecipazione, la Riparazione..

Compito del mediatore è quello di vigilare affinchè la Riparazione non abbia carattere afflittivo e risponda al principio della proporzionalità ed adeguatezza.

Valeria Tramonte, Mediatrice penale, non teme un certo grado di strumentalità nell’approccio delle parti alla mediazione; questo atteggiamento se da un lato non è in grado di per sé di pregiudicarne l’esito, dall’altro lato evidenzia comunque un certo livello di interesse per la relazione.

L’esito positivo della mediazione è oltremodo evidente nei reati procedibili a querela, allorchè intervenga la remissione. Diverso è il discorso relativo ai reati procedibili d’ufficio. In questi casi, l’esito dell’incontro tra reo e vittima non potendo incidere sulla procedibilità, può essere in grado di affievolire la pretesa punitiva (il pensiero va alla sentenza di irrilevanza del fatto).

La Tramonte evidenzia, del tutto condivisibilmente, come l’esito positivo della mediazione non debba essere valutato solo in termini processuali.

Infatti, quanto al reo, l’esperienza dell’incontro con la vittima può dischiudere processi di responsabilizzazione, che includono la presa di distanza da atteggiamenti di minimizzazione dei propri agiti e di spersonalizzazione dell’altro. Elementi questi che potrebbero peraltro essere utilmente valutati anche dall’Autorità Giudiziaria entro la cornice degli istituti giuridici più appropriati.

La vittima, d’altro canto, potrà cogliere una inedita opportunità di esplicitazione delle proprie esigenze e dei propri bisogni. La vittima dovrà essere sempre destinataria di un immediato supporto perchè non consolidi il convincimento di essere valorizzata solo in funzione del processo.

Nella sessione dedicata al procedimento penale degli imputati adulti, l’attenzione si è principalmente concrentrata sull’istituto della sospensione del processo con messa alla prova, per la idoneità dei progammi trattamentali ad includere pratiche riparative (sia pure con le dovute precisazioni).

Il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trento, dott.ssa Licia Scagliarini si è soffermata sul problema “cognitivo” del giudice del dibattimento, chiamato a valutare la bontà di istanze di sospensione del processo con messa alla prova a seguito di opposizione a decreto penale di condanna. Siffatta competenza, sottratta al GIP a seguito del recente intervento della Suprema Corte, suggerirebbe – ad avviso del PM – la necessità di implementare la collaborazione tra le parti processuali affinchè nel fascicolo del dibattimento siano inseriti tutti gli atti di indagine, utili ad una valutazione prodromica della situazione da parte del Tribunale.

L’istituto della Messa alla Prova, evidenzia il magistrato, è un istituto Responsabilizzante “a tappe” per l’imputato e non un premio (a differenza dell’istituto della sospensione condizionale della pena), che chiama ciascuno dei protagonisti della scena processuale ad un esercizio responsivo delle proprie funzioni.

Da un lato, l’organo d’accusa che intenda ostacolare l’accesso dell’imputato a siffatto istituto deve attenersi all’unico vincolo normativo, rappresentato dalla “Dichiarazione di Delinquenza Abituale, Professionale e per Tendenza”. In assenza di siffatta dichiarazione, pressochè irrilevante nella prassi giudiziaria, il giudizio discrezionale della Procura in merito all’istanza della Difesa deve basarsi su tutti gli elementi conoscitivi a disposizione per poi….”lanciare il cuore oltre l’ostacolo”…

Dall’altro lato, l’organo giudicante non deve perdere di vista la natura risocializzante e responsabilizzante dell’istituto, e non la mera natura deflattiva: si tratta di una occasione unica per il richiedente che non implica alcuna regalia o concessione da parte dell’A.G.

All’interno della Sessione di lavoro, la dott.ssa Daniela Arieti, mediatrice penale presso il Centro di Giustizia Riparativa della Regione Autonoma Trentino Alto Adige/Sudtirol, ha evidenziato come gli esiti positivi dei procedimenti penali a carico di adulti di competenza del Giudice di pace siano infrequenti, essenzialmente per resistenze culturali ancora molto forti delle persone di fronte a strumenti che richiedano un “impegno fattivo”.

Ciononostante, pur in assenza di un immediato riscontro processuale positivo, gli operatori del Centro valorizzano le preziose opportunità di “cura delle relazioni”, nella prospettiva della accoglienza di un “bisogno” e non di un “risultato”. Il dialogo assolve ad una funzione essenzialmente preventiva e allora, ”anche parlare del taglio di un albero può essere utile”…

Quanto, poi, ai lavori di Pubblica Utilità, la Arieti, sottolinea il valore “rieducativo” ma non necessariamente “riparativo”.

L’ultima sessione, presieduta dalla Professoressa Antonia Menghini, docente di Diritto Penitenziario, porta alla memoria, con il carisma che contraddistinue il Dott. Giovanni Maria Pavarin, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Trento, l’annullamento della partecipazione dell’ex brigatista Adriana Faranda nell’ambito di un corso di formazione per magistrati.

Dove è lo scandalo?”, diceva Valerio Onida (ex giudice della Corte Costituzionale ed ex presidente della scuola). “O si pensa che la scuola sia un sancta sanctorum, un tabernacolo che non può essere profanato dalla presenza di certe persone? La formazione è per eccellenza il luogo della riflessione e del confronto e la formazione dei magistrati non può ignorare quello della giustzia riparativa”.

Compito degli operatori, ribadisce Pavarin, è offrire al reo una apertura sulla vittima: “al reo è stato insegnato a riparare in favore dello Stato, e non della vittima”.

La riparazione del danno è un “concetto etico profondo”. Nel procedimento penale minorile non è consentita la costituzione di parte civile e con essa il risarcimento, proprio perchè il risarcimento è cosa diversa dalla riparazione.

L’esperienza professionale del magistrato testimonia che la Vittima che riceva la lettera del suo offensore tragga piacere da quel tempo dedicatole, a prescindere dal fatto che sia intervenuto o meno un pentimento.

Il reato è un male che non si cancella”, che rischia di soggiogare ancora più a sé la vittima, come straordinariamente osservato da Luciano Eusebi in un articolo pubblicato nel 2016 in “Orientamenti Pastorali”.

Ho apprezzato particolarmente le riflessioni del collega Filippo Fedrizzi del Foro di Trento, che rileva come paradossalmente in fase esecutiva gli spazi per la RJ siano estremamente marginali, benchè in questa fase il problema della presunzione di non colpevolezza non si ponga più.

L’avvocato Fedrizzi, in esito ad una panoramica raccolta di riflessioni rese da operatori giudiziari del Tribunale di Trento, ha rilevato alcune motivazioni:

in sede cognitiva:

  • la disarmonia tra i tempi della RJ ed i tempi processuali;
  • l’atteggiamento di diffidenza verso i mediatori;

in sede esecutiva:

  • impedimenti burocratici;
  • mancanza di fondi / spending review;
  • mancanza di personale;
  • differenze culturali che richiedono mediazioni specifiche;
  • brevità delle pene nella casa circondariale di Trento.

L’abitudine a misurare il benessere in termini economici, propria di una generazione cresciuta nello snodo di due ideologie (quella marxista e quella liberalista) costituisce un humus culturale restio a considerare la vittima in termini diversi da quelli puramente economici.

Al prossimo convegno….!